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Nei quartieri dove il sole del buon Dio
non dà i suoi raggi
[Fabrizio De André – La città vecchia]

pescivendolo

La casa ha le pareti color fuxia. All’interno c’è un ventaglio enorme, due farfalle di ceramica, un poster di Jim Morrison, peluches, specchi, quadri, foto, piante rampicanti, una poltrona zebrata e una statua di Santa Rosalia adorna di rosari.
E 12 criceti, un cane della prateria, una shih-tzu con due cuccioli, e un fascinoso ragazzo tunisino, il suo compagno, unico maschio in casa. Perché lei, di maschi in casa, non ne vuole.
Lei è G di giorno vende le cozze, e di notte è una trans. Così mi ha detto quando ci siamo presentate al mercato rionale di uno dei quartieri popolari di Palermo.
Fuori splende la luna piena di luglio, la gente del quartiere è in poltrona, che guarda la tv. Sul marciapiede, la tv. Come il tappeto, il divano, e il tavolinetto per i piedi. Mi scrutano attenti quando passo, poi capiscono. Sono quella che è scesa da Milano per intervistare G. Il giorno dopo mi salutano tutti.
Quando arrivo G è in bagno che si sta mettendo le extension, biondissime come i capelli:
“Che dici c’appatta?”
Si passa un filo d’ombretto viola ed esce, sorridente ed emozionata. Mi mostra le protesi per il seno che le ha regalato un chirurgo, e me le fa toccare. Impressionanti. Sembrano più vere delle mie. Mi chiede come sta, se va bene per il video. Sulla faccia mi si stampa un sorriso a 42 denti.

Mi racconta di quando era bambina, dei suoi primi amori, delle sue sorelle che le passano i vestiti, di sua madre che l’ha accettata com’era “perché sei sempre mio figlio” e ogni tanto le da i consigli per il make up. Le chiedo se si è mai sentita discriminata, se ha mai avuto paura. Mi risponde che nel quartiere le vogliono tutti bene, che la rispettano, che lei capisce con chi si può confidare e con chi no, che le persone che ti dicono “mi fai schifo” sono quelle che vorrebbero essere come te, ma non ne hanno il coraggio.
“E io invece non mi vergogno di quello che sono, e me ne vado in giro così: a testa alta”.

Ogni tanto salta fuori qualche contraddizione. E’ contraria all’adozione di figli da parte delle coppie gay, lo trova contro natura. Il cane comincia ad abbaiare in cucina. Prende in braccio un cucciolo e lo coccola affettuosa.
“Ma saresti una buona madre?”
“Sì, sarei una buona madre”
Vorrebbe avere una figlia, rigorosamente femmina. Le domando se avrebbe qualche progetto per il suo futuro, mi dice di no, che la lascerebbe libera di fare quello che vuole. E mi rendo conto di aver fatto una domanda scema.
Mi dice che alle volte gli uomini vengono a comprare mezzo chilo di cozze per la moglie e già che ci sono si fissano un appuntamento per la serata. Mi spiega che ogni tanto fa del battuage, che le prostitute la scacciano e lei risponde che la strada è di tutti e lei può stare dove vuole. Da come mi descrive i rapporti ho l’impressione che questo sia il suo modo per sentirsi donna. Le domando se ha mai pensato di intervenire chirurgicamente per cambiare sesso. Mi risponde decisa che non lo farebbe mai. Il suo corpo di maschio le piace. Le piace curarlo, vestirlo, scolpirlo. Quando si riferisce alla vita diurna parla di sé al maschile, quando racconta la sua vita notturna parla di sé al femminile. Le chiedo in che cosa, allora, si sente donna.
“E’ che fin da piccola mi piacevano di più le cose da femmina”
Questa mi pare di averla già sentita.
“Tipo cosa?”
Mi dice che le piacevano i cartoni da femmina, i vestiti da femmina, i giochi da femmina, e che le è sempre piaciuto truccarsi. E truccarsi è una cosa da femmine.
O no?

Mi torna in mente che ho sempre sottoposto i miei fidanzati a sessioni di maquillage. Mi piaceva vederli truccati, e loro non si ribellavano poi tanto. Una volta ho parlato con un bambino che giocava alla scuola di danza insieme ad una sua amica. Mi ha descritto il suo tutù rosa con gli strass, e, tutto preso dal racconto, mi spiegava che, nella finzione, si metteva i brillantini nei capelli e poi la maestra li redarguiva: “State zitte! State buone!”
Quando lavoravo alla Città del sole e le coppie mi annunciavano “vorrei un gioco da femmina”, ribattevo che non esistono giochi da femmina o da maschio: esistono giochi che piacciono o che non piacciono. E loro si mostravano abbastanza accondiscendenti. Ma provate a suggerire a un padre un set di vestitini per bambola come regalo per suo figlio…

Vorrei rispondere qualcosa a G: che non ci sono cose da maschio e cose da femmina, ma mi sento inopportuna. La solita maestrina saccente. E rimango zitta.
Dentro però mi sorge un quesito:
Ma se a G avessero insegnato che un maschio può truccarsi, e che Hilary è un cartone da bambino, forse non avrebbe avuto disordini legati all’appartenenza di sesso? Non che io trovi niente di sbagliato nella transessualità, o nell’ambiguità di genere, è solo che spesso me lo chiedo.
Mi risponde in parte l’articolo di Ruth Padawer, ripreso su Internazionale n°966 col titolo “Oggi mi vesto da femmina”. Fa degli esempi di bambini che amano “le cose da femmina”. Questo non necessariamente porta a transessualità o omosessualità, specialmente se viene incoraggiato invece che represso. Per gli psicoterapeuti più illuminati:

“il non conformismo di genere è insolito ma non innaturale. Invece di spingere i bambini a conformarsi ai modelli, gli insegnano a come reagire all’intolleranza degli altri. E incoraggiano i genitori ad appoggiare le espressione di genere dei figli, perché il loro appoggio li vaccina dalla mancanza di autostima”

Del resto tempo fa si era parlato di una coppia di genitori canadesi che si rifiutava di esplicitare il sesso di loro figlio; e nel nord-europa si comincia a proibire la genderizzazione dei giocattoli.
Confuta le mie idee Valentina Genta, durante il seminario della LUD di sabato scorso, quando ho parlato della storia di G:
“I modelli di genere non dovrebbero essere chiusi in un sistema binario. Studi scientifici dimostrano che un’educazione al genere aperta ed elastica riduce i disordini di appartenenza futuri. Educare alla molteplicità di modelli di genere crea individui più liberi.”

Alla fine della nostra lunga chiaccherata siamo tutti stanchi. G prende un ventaglio vermiglio e comincia a sventolarsi davanti all’obiettivo. Un’immagine bella, generosa, e autoironica che non dimenticherò facilmente. Riprendo tutto, fino all’ultima capriola:
“Qual è il tuo più grande desiderio?”
“Rinascere donna, donna davvero”.